Storia, storie, figure del Piemonte e degli antichi Stati Sabaudi
La peste a Torino tra Cinque-Seicento: le preghiere alla Consolata, a San Valerico e l’esempio di padre Gualteron
Daniele Bolognini
Durante la pestilenza del 1599 la devozione dei torinesi si rivolse, come in passato, alla Vergine Consolata, la cui venerata icona era custodita nell’antica chiesa benedettina di Sant’Andrea (odierno santuario). Preghiere e suppliche furono però anche rivolte a San Valerico abate, le cui reliquie – in città fin dal 906 – non erano distanti dal quadro della Madonna. L’anno precedente era stato eletto Compatrono di Torino e papa Clemente VIII, con una bolla, ne aveva approvato il culto. Di fatto era già venerato tale, gli Ordinati del Comune lo menzionano per la prima volta il 24 novembre 1450. Nel 1599 fu realizzato un nuovo altare di patronato municipale, l’anno successivo si commissionò la pala ad Antonio Parentani come ex voto per la peste. Valerico fu invocato, insieme a san Rocco, quando la peste tornò a mietere vittime nel secolo successivo.
Le vicende di questo santo francese ci portano nell’alto medioevo, quando monasteri e abbazie costituivano un riferimento non solo religioso, ma anche sociale, economico e politico. Valerico (Walaricus in latino, Valéry in francese) nacque nel 565 in una famiglia di pastori nell’Auvergne, una regione montuosa del centro della Francia. Si fece monaco e si stabilì nel 594 a Luxeuil (Borgogna) in un’abbazia in cui vivevano circa duecento monaci guidati dal celebre san Colombano. Tappa successiva fu il monastero di Fontaine, dove conquistò con la sua saggezza l’amicizia del re Teodorico. Evangelizzò la Neustria (tra Aquitania e il Canale della Manica), su invito di Clotario II, giungendo fino ad Amiens, dove compì numerose conversioni per contrastare i culti pagani ancora praticati. Amava però anche il silenzio di un ritiro vicino al mare alla foce del fiume Somme, dove in una boscaglia fondò un nuovo cenobio. Predicò nei villaggi vicini, mentre il monastero si ingrandiva divenendo la nota abbazia di Leuconay. Valerico morì il 12 dicembre 622 in un luogo solitario, in cui sarebbe sorta la cittadina di Saint-Valéry-sur-Somme. Le sue reliquie furono da subito oggetto di venerazione e Carlomagno ne trasferì alcune all’abbazia di Novalesa. Come leggiamo nel Chronicon Novaliciense (1060 circa) i Benedettini, abbandonando il loro monastero non più sicuro nel 906, le portarono a Torino dapprima presso la chiesa dei Ss. Andrea e Clemente presso Porta Segusina e, nel 929, nella non distante chiesa di Sant’Andrea, l’odierno santuario della Consolata. Le successive fasi di ampliamento del santuario fecero migrare l’altare di S. Valerico in posizioni diverse, fino all’attuale.
Ai Benedettini nel 1589 subentrarono i Cistercensi, con il ramo riformato dei Foglianti, sino alla soppressione napoleonica. Il termine “Foglianti” deriva dall’abbazia di Notre-Dame di Feuillant (Tolosa), in cui visse Jean Baptiste De la Barriére, il padre della riforma. A Roma grazie all’importante protezione della famiglia Caetani fu loro affidato il monastero di S. Pudenziana, da cui partirono i monaci destinati a Torino. Quando nel 1599 la peste nuovamente colpì la neoeletta capitale sabauda, i monaci si distinsero per il soccorso spirituale, ma anche materiale, verso il popolo. Loro guida fu il priore padre Giovanni Gualteron (Gualteronio), di cui abbiamo notizie dalle monografie sul Santuario e da un inedito manoscritto in latino conservato alla Biblioteca Civica Centrale di Torino. Esercitava la professione forense quando decise di farsi monaco. Professò tra i Cistercensi nel 1581, assumendo il nome di Giovanni di S. Girolamo. Fu in diverse case dell’Ordine prima di Torino, inviato nel 1596 per rivitalizzare il monastero. Rinunciò alla parrocchia – aveva 500 parrocchiani – affinché la Consolata fosse solo “un centro di preghiera, comune a tutti i cittadini”. Durante la pestilenza del 1599 padre Gualteron fu stimolo ed esempio per i confratelli. Il manoscritto recita: “Volle farsi grande di fronte al Signore, in quel tempo in cui presagi funebri squassavano Torino e in quella città orrida morte percuoteva equamente i palazzi dei ricchi e i tuguri dei poveri, tirando fuori e trasportando per vicoli e piazze la moltitudine di cadaveri putrefatti dalla peste che riempivano l’aria di fetore e producevano la maggior causa di pestilenza ai poveri. […] Ma non fece così Giovanni mentre instancabile nella cura di tutti correva per la città, consolava coloro che soccombevano al morbo portando il dono della pietà e carità e amministrava a coloro che incontrava ciò che era necessario al sostentamento della vita […].
Memorabile, l’anno seguente, la testimonianza di fede in occasione della festa del Corpus Domini. Poiché per le morti o le fughe di molti sacerdoti era a rischio la tradizionale processione, Gualteron e i confratelli, a piedi scalzi e in abito penitenziale, portarono in loro vece la SS. Eucaristia dal Duomo lungo le strade limitrofe. In pochi li seguirono, per paura del contagio, molti si affacciarono alle finestre, piangendo con le braccia incrociate al petto. Nessun monaco fu colpito dalla peste che, da quel giorno, dicono le cronache, cominciò a declinare.
Padre Gualteron visse a Torino, saltuariamente, fino al 1619. In quegli anni si abbellì l’altare della Consolata e la cappella sotterranea delle Grazie nel 1608, e si fondò il convento della Visitazione a Mirafiori per volontà del principe Vittorio Amedeo di Savoia. Sul finire del 1619 decise di ritirarsi a Roma, visitando nel tragitto i confratelli di Vicoforte e pregando Maria Regina Montis Regalis. Giunse a destinazione allo stremo delle forze: morì infatti il 10 gennaio 1620.